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Renzo Marcon pittore

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Paolo Rizzi

La critica
Paolo Rizzi
Roberto Costella
Secondo Mallarmé "l'uomo deve scoprire quel che c'è sotto l'apparenza delle cose". Egli aggiunge: "E' lì che La Verità diventa Mistero".

Renzo Marcon da alcuni anni è su questa strada: osserva il mondo. Lo fa con occhio ossessivo e con forte pregnanza psichica. Per lui ogni aspetto della natura -un albero, una nuvola, la forma d'una roccia, pensino una farfalla - diventa "significante". Al suo interno si nasconde la pulsione arcana della vita; quindi il senso stesso dell'esistenza. La sua è una continua metamorfosi, cioè una lettura dall'interno della natura, quasi un giungere al nucleo di Verità che, appunto, si trasforma in Mistero.
Il suo percorso artistico va inteso come un percorso iniziatico: una sorta di perenne Odissea vissuta col pensiero e coi sensi. La partenza è data proprio dal Mito, Marcon si è immedesimato nella fuga fantastica dell'Eros, ripercorrendo e quasi entrando in quello che per Omero era "racconto di verità". Ecco allora Dafne e Cioè, Amore e Psiche, Teseo e il Minotauro; ecco le piante trasformarsi in esseri umani, e gli esseri umani in piante.
Un continuo morire e rinascere. Nel Mito greco si trasfondono il desiderio panico di vita come l'oscuro presentimento, la ribellione e la dolcezza, il flusso del sangue e il trasfigurarsi della mente, la durezza dell'apologo morale e la bellezza più pura del sogno.
Marcon guarda gli alberi da lontano. I loro rami diventano broccia che si protendono disperatamente verso la vita; i tronchi si avvicinano in un abbraccio d'amore; le chiome si sciolgono al vento del desiderio. E' una metamorfosi impercettibile; poi sempre più evidente. Noi scopriamo il nucleo recondito del Simbolo proprio come l'artista, nel suo processo di trasformazione creativa, lo aveva all'inizio svelato. Quindi la nostra diventa una partecipazione sempre più stretta. Succede che poi, osservando degli alberi "veri", finiamo per "leggerli" secondo l'oscuro fascinoso travisamento di Marcon. Così per le rocce che all'nizio noi vedevamo come tali e che poi si mutano in una folla impietrita (magari urlante) di personaggi. Le stesse nuvole vaganti nel cielo, assumono le parvenze di fauni e ninfe, esseri umani avvinghiati in un abbraccio o fluenti in una danza dionisica.

Ma che dire? 
Basta che Marcon ci presenti i suoi straordinari tacchini; ed ecco che questi comuni animali di cortile diventano qualcosa di "altro", grotteschi e tragici, momenti di eccitazione, ruote sfolgoranti nello spazio, e le ali delle farfalle si tramutano in pulsioni di vita o vaticini di morte. Eros e Thanatos.
Renzo Marcon è un uomo di grande coraggio. I suoi occhi vedono e, nel contempo, stravedono; ma la sua mente non vacilla. Ciò spiega la perfetta rispondenza del gesto pittorico nell'Idea che urge dal di dentro. Sarà forse per questo: certo è che le sue opere - in genere chine colorate - non solo ci riempiono di ammirazione, ma ci colpiscono nel profondo, lo stesso che parlo sovente di "verità biologica" come valore primario dell'arte in un momento come questo di sfaldamento delle convenzioni estetiche, ne sono preso fin nei prericordi. Entro, letteralmente entro, nelle trasmutazioni naturali e pur magiche dell'artista: le vivo, mi immedesimo in esse. Allora basta un segno, un colore, un momento del gesto per farmi recepire la spinta vitale che dall'opera emana. Quegli alberi che diventano torsi dolenti, quei grovigli umani che escono dalla vegetazione o dal cielo, e che si diffondono nell'aria trasportati dal vento della passione, sono le testimonianze di una forza che sorregge noi stessi e il mondo intero.
Allora il Mito greco, da cui Marcon ha preso le mosse, non è che il velo che ci fa percepire la verità assoluta che ci coinvolge tutti e che fa muovere le nostre deboli gambe verso il cammino meraviglioso tracciato da Ulisse nel suo ultimo viaggio; oltre le colonne d'Ercole dell'Ignoto.

Paolo Rizzi
 

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