LA SCUOLA DEI PESCI

C’erano una volta due fiumi: il Piave e la Livenza. 
Essi avevano un figliolo di nome Rasego, al quale piaceva attraversare un paese che si chiamava Basalghelle. Gli piaceva anche giocare con una pianticella acquatica dalle vaste foglie verdi e dal fiore giallo splendido che si apriva solo di giorno per la gioia delle libellule dai grandi occhi: la calta palustre.

Vicino al ponte che scavalcava il Rasego c'era la scuola per i pesci. La frequentavano otto piccole tinche con la pinna e la coda corte, sette piccoli lucci col dorso grigio e col ventre bianco, quattro piccole anguille dal colore verde sudicio di sopra e gialliccio di sotto, tre carpe ripetenti con tante squame, un piccolo pesce gatto con la testa grossa e due strani filamenti che sembravano lunghi baffi neri. Il nome di questo alunno era Marson.

Il pesce gatto non era né più intelligente, nè più stupido degli altri scolari. Aveva imparato a scuola che pesci grossi mangiano i pesci piccoli e perciò evitava i pesci più grandi di lui. Non era una precauzione da poco. Aveva anche imparato che sull’acqua non si può scrivere e che certi vermi, i lombrichi sopratutto, avevano un buon sapore, ma gli sembrava una diceria che certa gente infilasse vermi in un amo per attirare i pesci, in quanto nessuno dei malcapitati glielo aveva potuto raccontare realmente.

Accadde così, in un brutto giorno, che il pesce gatto addentò un vermiciattolo penzolante nell’acqua. Un amo gli perforò subito il labbro superiore e il dolore fu grande. Si accorse poi che era stato tirato fuori dall'acqua poiché l’amo era legato a un filo. Per la prima volta vide anche un uomo sulla riva con una lunga canna in mano.

Mentre il pesce gatto era ancora appeso al filo, imparò quanto la scuola gli aveva insegnato e cioè che qualcuno usava veramente vermi come esca per catturare i pesci! Ma era troppo tardi.

Il pesce gatto non si arrese. Si dimenò con furia sperando di staccarsi dall’amo ma questo penetrava sempre più nel suo muso e faceva ancora più male. Provò perfino a supplicare il pescatore: “Ti prego, lasciami tornare nell'acqua”. Ma l'uomo non capiva la lingua dei pesci, oppure non voleva comprenderla, e staccò il pesce dall'amo, ma solo per gettarlo in un secchio nascosto tra i cespugli, dove c'erano già altri pesci, tutti con un foro sul muso dal quale usciva sangue. - “Eccone un altro che non ha voluto credere quanto sia crudele l'uomo”, ripetevano piangendo i pesci nel secchio.

Il pesce gatto non voleva ammettere la realtà e disse: ''Forse non tutti gli uomini sono così''. - Gli altri lo compatirono e risposero: ''Nemmeno ora sei in grado di capire e di imparare".

Una ragazzina del paese, Ana Katharina, era intanto arrivata furtivamente sul posto e aveva visto il secchio con i pesciolini disperati. Immaginate che cosa fece.


Nerio De Carlo

NERIO DE CARLO
nato a Basalghelle, è un solista dell’identità della propria terra: la Sinistra Piave. 
Oltre a numerosi saggi, egli ha pubblicato le opere di narrativa “Una battaglia per Sacile”, “Le stelle forse non esistono nemmeno”, “La leggenda del Santo Trovatore” e “Conti di Treviso, di Collalto, di Collalto e San Salvatore”. È, inoltre, autore della raccolta di poesie dell’emigrazione “Poénta e scopetòn”. 
Nerio de Carlo non è inquadrabile in alcuna tendenza politica o didattica, ma evidenzia contiguità con la cultura mitteleuropea, la quale non è una dimensione statale, bensì un destino. I suoi contorni sono infatti immaginari, come ricordava Milan Kundera, e devono essere ridisegnati al formarsi di ogni nuova situazione storica. In quest’ottica egli ha effettuato le traduzioni in lingua italiana di fiabe per la gioventù, dell’antico manoscritto frisone “Ura Linda”, del libro di Erich Feigl “Mezzaluna e Croce: Marco d’Aviano la salvezza d’Europa”, nonché del filmato “Una battaglia per Vienna” dello stesso autore. Ha di recente presentato, durante le Manifestazioni Aganoor 2002, la sua ultima fatica “Il popolo nascosto : Vittoria Aganoor ed Enrico Nencioni, dialogo su Basalghelle”.