Mansuè viva
[ Home ] [ Biografia Schileo ] [ Dall'Ongaro 2003 ] [ Dall'Ongaro 2008 ] [ Immagini Dall'Ongaro ] [ Opere online ]
Celebre nella storia di Venezia è tutt'oggi la vicenda di Pietro Tasca, il Fornaretto di Venezia, che fu giustiziato per errore e che divenne un simbolo per quanti rimasero nei secoli vittima dell'ingiustizia. Pietro lavorava come garzone nella bottega del padre, un forno per il pane in calle de la Mandola. All'alba di una fredda mattina, ai primi di marzo del 1507, il giovane sta scendendo i gradini del ponte "dei assassini", quando si accorge di qualcosa di luccicante. Pietro si abbassa, raccoglie l'oggetto che sembra essere d'argento: è il fodero eli un pugnale. Non è ancora giorno, ma il Fornaretto è contento della sua fortuna, non immaginando che ciò che tiene in mano è l'origine della sua rovina, e fa vedere quello che ha raccolto alla morosa, Annella, che lavora come domestica nella vicina Ca' Barbo. In un angolo buio scorge una persona distesa. «Un ubriaco» pensa il Fornaretto, ma ugualmente si china per sincerarsi che l'uomo non sia ferito, e abbia bisogno di aiuto. Lo volta, e non gli ci vuole molto per rendersi conto che è morto. Pietro appoggia le dita in quel rivolo rosso di fianco al cadavere: è sangue, non vino, e adesso si è macchiato anche la vestaglia bianca che usa in forno. Guarda meglio il viso del morto, e non può non trasalire, perché lo conosce: è Alvise Guoro, giovane cugino e frequentatore assiduo di Clemenza Barbo, moglie di Lorenzo e padrona di Annella. Poi tutto, in pochi istanti, precipita. Si sta facendo giorno, la luce ha iniziato da qualche minuto a filtrare tra le strette calli di quel rione. La calle si popola, e vedendo il Fornaretto imbrattato di sangue e col fodero del pugnale ancora in mano, lo credono l'assassino. Non stanno tanto a domandarsi perché o per cosa: conoscono il giovane, tutti sanno di antichi dissapori tra messer Alvise Guoro e la famiglia del Fornaretto, pensano che magari il nobile si sia presa qualche libertà con la servetta. Il giovane non fa a tempo a spiegare le proprie ragioni che le guardie sono già lì, la macchina della giustizia si mette inesorabilmente in moto: il Fornaretto viene condannato ad essere decapitato, squartato e posto a ludibrio del popolo alle quattro porte della città. La mattina del 22 marzo tutto è pronto per l'esecuzione, tra le colonne di Marco e Todaro: il giovane non pensa più da giorni a difendersi; ci ha pensato la «camera dei tormenti» a piegarne la volontà. Pietro ha riconosciuto le proprie colpe, malgrado sia innocente, pur di dar termine ai supplizi: è rassegnato, avvilito, aspetta solo il momento in cui tutto sarà finito. Dal canto suo, il boia aspetta solo un cenno del capo del Consiglio dei Dieci per calare la mannaia sul collo del giovane. Nello stesso momento messer Barbo confessa alla moglie l'omicidio del parente, perpetrato per gelosia. Ma non arriva in tempo per annunciare la notizia: il boia assesta il colpo; uno dei Dieci pronuncia la formula rituale: «Giustizia è fatta! ». Ma la voce che Pietro è innocente si diffonde con la velocità del fulmine e il Doge lancia un monito che verrà ripetuto per tre secoli nelle aule giudiziarie, nel corso di processi che possano condurre ad una possibile condanna a morte: «...e ricordéve del pòvaro fonia reto». La storia di Pietro Tasca e della sua fine ingloriosa, invece, non sarà registrata in nessun documento ufficiale. La ragion di Stato impone il silenzio; non si può screditare l'operato della Serenissima per un banale e affrettato errore giudiziario.
Impostazione grafica&realizzazione: Silvano Rubert