Trova spazio per l'azione
apostolica che l'intensa sua vita intcriore rende
prodigiosamente feconda. La corsia diventa la casa del suo
apostolato. La sua presenza crea spontaneamente un'atmosfera
carica di attenzione e di edificazione.
«Siamo consolate ora — dicono le altre malate — siamo andate al
letto di Suor Eugenia!».
E la ragazza di un'altra corsia scrive a casa: «Cara mamma,
conoscevo i santi pitturati sulle pareti della nostra Chiesa, ma
adesso ho visto una santa davvero. Mamma, essere santi non è una
leggenda, ma una realtà!».
Le infermiere, abituate a catalogare gli ammaliati secondo il
loro carattere, trovano per Suor Eugenia la definizione esatta:
la santa Teresina del Sanatorio!
Ma gli elogi la rattristano, ha l'impressione che diminuiscano
il valore della sua sofferenza.
«Senta, Padre — dice un giorno al Cappellano — io le prometto
che quando sarò in Paradiso non la dimenticherò mai, la seguirò
sempre con le mie preghiere e l'aiuterò nelle sue necessità, a
condizione che mi faccia una promessa».
«Quale promessa?».
«Mi deve promettere che non parlerà mai più di me!».
Intanto il male progredisce rapidamente e la speranza della
guarigione si dilegua come un dolce miraggio. Le Consorelle e le
Superiore la visitano spesso, rammaricate di perdere quella
sorella che sembra giocare con la malattia.
Con l'avanzare del male, si fa più forte in lei il desiderio di
soffrire: la sofferenza diventa il suo respiro e il suo credo.
Accetta la malattia come il mezzo per perdersi e ritrovarsi
nelle mani di Dio. Diviene assetata di sofferenza.
«Vorrebbe farmi un favore?» — dice un giorno al Cappellano.
«Volentieri, Sorella, e quale sarebbe?».
«Che per un settimana non venga a trovarmi».
«Perché?».
«Perché io qui ho troppo poco da soffrire e vorrei offrire al
Signore un piccolo sacrificio».
E' il suo sistema per rispondere all'amore del Signore. Pochi
sanno trasformare in totale offerta d'amore, vivendo nella
pienezza della gioia che il vero dono comporta, una snervante
malattia capace di atrofizzare la volontà e di spegnere ogni
desiderio di vita.
Ma non è tutto. Francescana in ogni fibra del suo cuore, assume,
nel suo modo di soffrire, lo stile della semplicità gioiosa.
«Bisogna che la mia sofferenza sia simpatica. Mi aiuti, non
voglio perdere una battuta del mio sorriso » — dice rivolgendosi
alla Superiora.
E un'altra volta scrive: «Madre cara, sono già riuscita a
sorridere per una giornata intera. E non soltanto sulle labbra,
anche nel cuore. Preghi perché possa sorridere anche quando alla
sera la febbre si fa più alta e le labbra sono come
rattrappite».
Al dolore offerto con gioia aggiunge la carità. Un pomeriggio
viene dal convento una Suora per assisterla. È estate e l'afa
avvolge tutti quei lettini di sofferenza, rendendo più difficile
il respiro alle ricoverate. Fra l'altro ci sono anche le mosche
ad infastidire. La sorella infermiera si mette di buona volontà
con in mano paramosche e ventaglio. Si tratta certo di una
guerra legittima, ma non è dello stesso avviso Suor Eugenia.
«Lasciale venire, sono anch'esse tanto care». Poi con tono
deciso : «Vorrei che venissero tutte da me e lasciassero
riposare lei e l'altra malata!». |
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